(D.Galli) – Non è vero che l’abito non fa il monaco. Joe Tacopina è quello che veste. Nel suo caso, l’apparenza è realtà. Quando si presenta nella nostra redazione per una visita di piacere, indossa una polo. Però non una qualsiasi, magari di qualche griffe esclusiva, ché da uno dei penalisti più famosi di New York te lo potresti anche immaginare. No, il vicepresidente veste quella bianca della Roma. Joe veste la Roma, perché quello si sente dentro, perché quello è. Joe è americano, o più italiano che americano forse, ma in assoluto è romanista. Lo è come il nostro quotidiano, come i tifosi che lo leggono. Queste sono le uniche frasi che si lascia sfuggire. E Luis Enrique? E la campagna acquisti? Ce ne sarebbero di domande. Ma Joe è chiaro: «Don’t quote me», non mi citate, si raccomanda. Non perché non voglia parlare al popolo romanista che cerca risposte, non perché non abbia il coraggio di metterci la faccia. Semplicemente, perché in questo momento bisogna parlare con il lavoro. Quello della squadra sul campo e quello dei dirigenti ai quali la proprietà americana ha affidato la Roma. Perché di loro dall’altra parte dell’oceano, sull’asse Boston-New York, si fidano ciecamente. Quanto al luogo comune che a questa società manchi un leader, sono i fatti a smentirlo. Perché Tacopina dopo una scappata a Il Romanista non se ne va certo a fare una passeggiata a Villa Borghese. Si presenta a Trigoria, come sempre da quando è l’architrave a stelle e strisce dell’operazione, l’alter ego statunitense di Mauro Baldissoni, l’avvocato (romanista) che con Tacopina ha tessuto la trama dell’acquisto del club da Unicredit. Ed è un luogo comune perché Pallotta e DiBenedetto, che in questa società hanno investito decine di milioni assieme a Ruane e D’Amore, hanno il polso della situazione e sono continuamente in contatto con Franco Baldini, la figura che fa da ponte tra l’Italia e gli States, il leader che secondo qualcuno ci manca e che invece c’è, l’uomo che gestisce la parte tecnica della Roma con i toni pacati di chi esercita il potere senza dover sbattere i pugni. È da lì, è dalla East Coast più precisamente, che avvisano: i romanisti non abbiano paura, noi ci siamo. L’America è qua apposta, è qua con Tacopina: delle cose romaniste è il suo ambasciatore. Joe si fa aspettare. Per un errore, a mistake, dell’Ufficio Immigrazione americano. L’episodio fu raccontato qualche tempo fa da Joe in un’intervista al IlSussidiario.net: «L’agente della dogana scrisse per sbaglio Tacopina invece di Jacopina sui documenti. Mio padre, che non parlava inglese, si arrabbiò e protestò. Guardi che c’è un errore. Ma l’agente non volle sentire nulla e lo mandò via dicendo che era tutto a posto. Così adesso parte della famiglia si chiama Tacopina e l’altra in Italia Jacopina». La serenità sul volto di Joe è una risposta a chi si interroga sul nostro futuro, il futuro dei romanisti, il futuro della Roma. La squadra è settima, il destino del suo tecnico incerto, appeso a una volontà scossa da tante turbolenze. Eppure Tacopina è ottimista. È romanista e quindi, certo, ora soffre. Ne sa qualcosa il povero Baldini, che in tribuna deve fare sovente i conti con le gomitate e i calci di Joe, isterie da tifosi, movimenti nevrotici normalissimi per chi la Roma la considera un affare. Un affare di cuore. Un affare che Tacopina cura da vicepresidente. È al vertice di una società complessa, dove ognuno ha un compito da svolgere e tutti lavorano per renderla più competitiva. Sullo stadio si seguono le indicazioni di Pallotta, che sogna un impianto vivibile sette giorni su sette, Arshad sta trasformando la Roma in una media company – l’ultima nata è AS Roma Mobile, unaapp che consente di restare aggiornati 24 ore su 24 – mentre la parte tecnica è affidata a Baldini e Sabatini, gli stessi dirigenti che adesso qualcuno contesta e che invece appena un anno fa tutti osannavano. Roma è fatta così, ma Tacopina non è spaventato.