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CORRIERE DELLO SPORT Cast ricco e film brutto: è mancata l’alchimia

Totti e Luis

(G. Dotto) – “Di che stiamo parlando?”, è il tormentone di Luis Enrique nella conferenza stampa di ieri. Non certo di un rosicchiato, stantìo, eventuale strapuntino in Europa. Ma che siamo a un passo dallo psicodramma. Che è meglio darci un taglio. Liberi tutti da quella che sta diventando una penosa trappola. Libero lui per primo, Enrique, liberi i dirigenti che lo hanno voluto e difeso a oltranza, liberi i tifosi mai così divisi per un allenatore e mai così torturati dalla squadra che amano, liberi i calciatori che ci hanno provato a sposare l’uomo che veniva da Marte, sempre al guado se percepirlo fascinoso o incomprensibile, fino poi trovarlo inattuabile.

La vera domanda è, stasera al congedo dall’Olimpico: perchè un cast così ricco di qualità ha prodotto un così brutto film? Americani eccitati, strategici e facoltosi, dirigenti carismatici, un allenatore innovatore e giocatori pieni di talento, dentro una città complicata ma vogliosa di riscatto Luis Enrique  e la Roma: fatti per amarsi, ma non per capirsi e mai così ben disposta. C’erano tutte le premesse per esultare, tanti indicatori positivi, e invece piovono rospi. E’ mancata l’alchimia. Il peccato originale, la scelta di Luis Enrique. Mancato per un soffio Villas Boas, Baldini si è innamorato dell’idea, poi dell’uomo Luis Enrique e poi ancora di sè che si era innamorato di Luis Enrique. Ecco il secondo peccato, la gigantesca palla al piede degli uomini anche migliori, il narcisismo. In assoluta buona fede Baldini si è dato all’autoinganno, nominandosi crociato di Luis Enrique si è impedito prima di riconoscere il macroscopico errore e poi di aiutarlo a correggersi. Eccellente persona e dirigente capace, Baldini si rifarà, ci scommetto, una volta evaso dalla trappola che si è creato con le sue mani. Lui e Walter Sabatini, uomo di rara intelligenza, consegneranno ai tifosi un futuro con i fiocchi, già a partire dalla prossima stagione. Me lo dice la loro sete di vendetta. Anche contro chi scrive pezzi come questi.

Luis Enrique non era pronto per Roma. E forse non lo sarà mai. Lui e l’ambiente, uno choc culturale reciproco. Fatti forse per amarsi, ma non per capirsi. L’asturiano è, alla luce dei misfatti, la persona meno adatta a una piazza levantina, sommaria e passionale, sommaria perché passionale, come Roma. Invece di elaborare la suprema forma d’intelligenza che è la mediazione (che diventa manipolazione quando al manico c’è uno stregone assoluto come Mourinho), Enrique è andato al muro contro muro. Alle prime difficoltà ha voluto esibire il manifesto del “Io sono diverso”, detto anche “Io lo faccio strano”. La diversità non è sempre un valore. La sua non lo è stata. Prendiamo i giocatori. Vanno capiti e assolti. Vi è mai capitato d’incrociare un insegnante eccelso, umanamente integerrimo ma che vi appesantiva il cuore perché, per quanto bravo e rispettabile, lontano dallo spartito della vita, che è movimento, equilibrio, compensazione infinita tra vuoti e pieni, rigore e lassità? Totti, De Rossi e compagni hanno provato a masticarlo ma hanno dimostrato in campo di non digerirlo. Sinceri quando lo stimano a parole, ma il loro inconscio, sempre più conscio, lo vuole lontanto da Roma. Sarà un addio triste ma necessario. Smarriti e confusi i tifosi, smarriti e confusi i vari Stekelenburg, De Rossi, Totti, Pjanic, Gago, gli stessi Osvaldo e Lamela, finiti e qualche volta dispersi nella centrifuga tattica dell’allenatore.

A  seguire, è la legge di Murphy, il peggio rotola necessario. A cominciare dagli arbitri. La Roma non è percepita come onesta ma debole dall’istinto umano, più prossimo al lupo che alla pecora. E la mala suerte. Che ha occhi di lince e iniettati di sangue. Il diluvio che si abbatte mezz’ora prima, sull’ultima spiaggia di Verona, è l’ultimo atto di una serie impressionante. “Che ho fatto io per meritare tanta mierda?”, il grido di Enrique è anche il suo epitaffio. E veniamo alla storia di Zeman. Lo sappiamo, non tornerà mai alla Roma e allora viva Villas, che è giovane ma predestinato e certo reso più “astuto” dal passaggio a Londra. Ma provate a darvi una spiegazione plausibile sul no a Zeman. Non c’è. Siamo di fronte a un gigantesco blocco della ragione. Un caso di conformismo letale. Zeman non è un anacronismo d’antiquariato, non è una comoda suggestione, una bella e vecchia favola da raccontare nei momenti difficili, Zeman non è una favola, non è vecchio, non è un eroe mitologico, il Bogart del calcio buono solo da vedere al cinema. Zeman è un grande allenatore, un presente smagliante, con una lucidità nel vedere calcio e una feroce rivalsa dentro che ne fanno la miglior scelta possibile. A 65 anni un uomo che non si è buttato via è una miniera di risorse, fuori dalla retorica cretina dei giovani. Un solo ecologico inconveniente. Tra lui e Sabatini, Trigoria avvolta in una nuvola permanente di fumo.

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