(M.Izzi) – La curiosità legittima è semplicissima: Ci sono state nella storia della Roma delle occasioni in cui un tecnico è stato appoggiato e difeso come ha fatto capitan Totti al termine della gara con il Catania?
A bruciapelo, a dire il vero, mi sono venute a mente le rivalità, gli asti e le guerre in famiglia (da quella leggendaria tra Mirò e Manfredini, a quella tra Ottavio Bianchi e Giannini, sino ad arrivare ai nostri giorni con le bizze continue di Antonio Cassano contro chiunque avesse la ventura di sedere sulla panchina giallorossa). Insomma, trovare qualcosa di analogo alla presa di posizione di Francesco Totti non è semplice, ma non impossibile. Il primo precedente risale alla stagione 1949/50, cruciale nella storia dell’intero decennio romanista. Nel mese di aprile la gestione del vate “Fulvio Bernardini” stava vivendo una tremenda crisi. Il ritorno di Fulvio, un ritorno sognato ed atteso per dieci anni, aveva generato grandissime speranze. Nuove idee, nuovo metodo di gioco, nuovi giocatori. L’obiettivo, nel giro di tre anni, è quello di creare una squadra in grado di lottare per lo scudetto. Le speranze erano però lentamente svanite sotto il peso di un rendimento fatto di alti e bassi e di una serrata lotta in seno al Consiglio giallorosso. Chi voleva la defenestrazione di Fulvio? Franco Recanatesi nel bellissimo: “Uno più undici”, fa senza reticenza il nome diRenato Sacerdoti. Ci è difficile, se non impossibile crederlo, soprattutto nei toni e con gli accenti descritti nel libro. Quello che è certo è che Bernardini venne trattato malissimo.
Era arrivato alla Roma non certo per denaro (…) e con l’esplicita promessa di un triennio per centrare l’obiettivo. Fuffo in un suo scritto fece cenno ad “un’incandescente riunione del consiglio Direttivo della Roma” tenuta il 24 aprile 1950. In quell’occasione si spesero sino in fondo in difesa del proprio tecnico il capitano Sergio Andreoli e il suo vice Tommaso Maestrelli. Una presa di posizione netta, senza compromessi, che porterà Sergio Andreoli a fare i bagagli a fine stagione, mentre Maestrelli avrebbe resistito ancora una stagione. Facciamo ora un salto nella “Roma a colori”, la Lupa degli anni 80, del grande Dino Viola e del dopo Liedholm. Sven Goran Eriksson dopo un primo anno deludente e una stagione incandescente e maledetta culminata con la delusione di Roma – Lecce e la conquista della Coppa Italia, aveva iniziato la sua terza avventura giallorossa, quella 86/87, puntando al titolo. Dopo poche gare, però, la squadra dimostrò di non essere in grado di ripetere l’incredibile cavalcata dell’anno precedente. Le cose vanno di male in peggio sino ad arrivare alle dimissioni del tecnico svedese. Da subito si parlò di uno spogliatoio spaccato in due: pretoriani e oppositori. Dino Viola fece apertamente capire che sarebbe andato a fondo della questione e tenne a rapporto ogni singolo giocatore. Il risultato di quella panoramica, però, Viola, come era giusto che fosse, lo tenne per sé. Quella maledetta annata, che sarebbe culminata con la cessione mai troppo rimpianta diCarlo Ancelotti, vide anche il brutto e sciagurato infortunio di Sebino Nela. Il grandissimo difensore, che si era sempre distinto per sincerità e schiettezza non si tirò indietro quando gli venne chiesto di fare un po’ di luce su quello che era avvenuto in quella tribolata stagione.
Fu così che nel luglio 1987, quando aveva appena tolto il gesso ed iniziava il lento percorso di riabilitazione, Sebino, sollecitato sulla questione dichiarò: “Cosa è mancato a Eriksson? La frusta. Troppo paziente, troppo tollerante, troppo buono. Eriksson per come io l’ho conosciuto e apprezzato è un uomo animato da una buona fede totale: fa quel che dice e pensa che gli altri, tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Lo hanno tradito proprio quelli in cui riponeva maggior fiducia. Nessuno tra quelli che non condividevano la sua idea di gioco ha avuto il coraggio di dirglielo in faccia. C’era chi si limitava a battere la fiacca. All’italiana (…)”. Qualcuno aveva “tradito” dunque, nulla d’ illecito, ci mancherebbe altro, parliamo solo di scarsa convinzione. C’erano invece quelli che erano in “perfetta sintonia” non tanto con Sven, quanto con la filosofia del suo gioco. Tra questi, proprio Sebino Nela e Carlo Ancelotti. Sfruttiamo le ultime righe per ricordare la gratitudine con cui Carlo Mazzone si è sempre rivolto a Franco Sensi: “Il primo anno da allenatore alla Roma (…) pensai che sarebbe stato anche l’ultimo (…) e se non fosse stato per il presidente Sensi, che mi rinnovò la sua fiducia e la sua stima, forse avrei chiuso lì, dopo una stagione”.