(R. Beccantini) – Riassunto delle “puntate” precedenti, dal 1980 a scommessopoli: toto nero uno e due, passaportopoli, doping amministrativo, doping farmaceutico, premiopoli, calcio-poli una e due, giocatori spogliati dagli ultras. Temo di aver dimenticato qualcosa. Resta il tanfo tipico degli sport avariati. Resta, soprattutto, una domanda: cosa fare? “Quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla. Credono a tutto”. Parole sante, di Gilbert Keith Chesterton, scrittore e giornalista inglese. E quando non credono più nel calcio, credono a tutto, a tutti: anche agli ‘zingari’, persino agli ‘ungheresi’. Che fare, allora. Ci provo.
1. Rinnovare la casta. Sinceramente, dei Petrucci, degli Abete e dei Carraro non se ne può più. Servirebbe un Grillo, al calcio italiano, ma non esiste. O meglio, uno ci sarebbe: Zdenek Zeman. II suo problema è stato ridurre il marcio, esclusivamente, a Moggi e Giraudo quando i fatti dimostrano che il marcio è continuato, e sta continuando, anche dopo di loro. TROPPI Ponzio Pilato, ha ragione Marco Tardelli (Repubblica). Gli esempi dovrebbero arCi vorrebbe il Grillo del calcio rivare dall’alto, ma quanto può essere “alto” un Abete che non ha il coraggio di entrare a piedi giunti sugli scudetti della Juventus e sul tavolino dell’Inter? E quando il gatto non c’è, o si appisola, i topi ballano. Elementare, Doni.
2. Abolire la Lega. Il Belgio è stato senza governo per 540 giorni e figura sempre sulle mappe. Giochiamo a fare a meno della Lega, dai. Ai presidenti interessano soltanto due cose: i soldi delle tv e i rigori (da non confondere con il rigore). Per distribuire i primi, basta che la Federazione chieda il ragionier Spinelli a Berlusconi e lo arruoli; a spalmare i secondi, provvedono da secoli gli arbitri, pagati a parte. Maurizio Beretta è il presidente della Lega, dimissionario da troppi mesi perché gli affiliati non lo trattino come un burattino. E allora: meglio un taglio netto.
3. Sfoltire i campionati. Vero, il toto nero dell’80 esplose in regime di sedici squadre (quattro in meno di oggi) e trenta partite (otto in meno), ma è vero, altresì, che la quantità moltiplica le tentazioni, specialmente a fine stagione, soprattutto in Italia. È da almeno una decina d’anni che si parla di Serie A a sedici (e di Serie B a diciotto, contro le ventidue attuali). Sarebbe il caso di impugnare le forbici: da una parte, Abete o chi per lui; dall’altra. Damiano Tommasi e il sindacato. Venti squadre, tra parentesi, costituiscono un fardello tecnico che pure inglesi e spagnoli faticano a trasportare, figuratevi un Paese come il nostro fondato sulle eccezioni.
4. Difendere la responsabilità oggettiva. Se il fango nel quale ci muoviamo non è ancora arrivato al tetto, lo dobbiamo alla responsabilità oggettiva che, sadicamente o no, fissa i lestofanti ai club di riferimento. Si va per gradi – presunta; oggettiva, appunto; diretta – e, quindi, non è proprio il caso di gridare al destino cinico e baro; semmai, ai bari. Naturalmente, molti boss da Lotito in su vorrebbero depotenziarne gli effetti. Hanno paura. Pensate cosa sarebbe successo, e dove saremmo finiti, se avessero vinto i talebani della responsabilità “soggettiva”. Servirebbe una classe di dirigenti con un briciolo di classe. Merce rarissima.
5. Riformare la giustizia sportiva. Non può fare tutto Palazzi, o il Palazzi di turno. Ne risentono i tempi e la credibilità. Un paio di mesi scarsi per liquidare la Calciopoli del 2006 e una vita per far luce sul buio di Padova-Torino. II presidente Monti propone di sospendere il calcio per due o tre anni, addirittura. Sarebbe come arrendersi ai teppisti di Marassi o agli spacciatori di risultati. Viceversa, bisogna lavorare sull’autonomia dei giudici sportivi e sui loro “tempi”. Prendetela per una provocazione, ma una Serie A a sedici squadre offrirebbe più spazio agli eventuali, o inevitabili?, processi.
6. Rilanciare l’inchiesta giornalistica. AI primo posto mi ci metto io: siamo troppo pigri, noi giornalisti (non tutti, per fortuna). D’accordo, non possiamo intercettare né pedinare, ma il doping lo scoperchiò Zeman, un altro che non poteva intercettare o pedinare. Dare potere alla voce è più difficile, e scomodo, che dare voce al potere: da controllori a controllati, o controllabili, il passo è breve e la fine nota (l’inciucio, come minimo). Per limitare le inchieste che stanno sventrando il calcio, urge recuperare l’inchiesta e il coraggio del “no”.