(P. Di Caro/G. Bianconi) – È una faccenda per romantici e sognatori,ma non è solo questo. È il ricordo della più trascinante emozione calcistica vissuta—Lazio- Roma 3-3, derby di andata stagione 1998-99 —, ed è la consapevolezza che, di lui, a travolgere non fu una vittoria ma un’epica rimonta contro tutto e tutti, e peggio per chi non c’era e chi non condivise quel volo. È pagare un debito con la giustizia, perché l’ingiustizia della cacciata di Zdenek Zeman per quella ormai storica opposizione del Palazzo va sanata. È il doveroso omaggio alla pulizia, alla ragione, all’utopia di un uomo che ha sempre insegnato calcio e vita, e chi dice che è poco non ha capito molto del calcio, e forse nemmeno della vita. Ma, appunto, non è solo cuore quello che fa dire sì al ritorno di Zeman alla guida della Roma. È la ragione di chi ha vissuto un anno di Luis Enrique, innamorandosi del suo rigore morale e di un’idea di calcio solo intravista, e non vuole tornare indietro ma conservare integrità e gioco d’attacco. Ed è la voglia di ritrovare un allenatore che sembra sia stato creato apposta per forgiare giovani vogliosi, rivitalizzare attaccanti spenti, dare linfa a campioni o aspiranti tali in cerca di buone occasioni. Poteva essere la panchina per André Villas Boas, quella di una Roma all’inseguimento del Progetto da mettere in vetrina in Italia e, soprattutto, nel resto del mondo. Ma i tempi non sembrano maturi per un giovane di 34 anni quanto lo sono per un uomo che di anni ne ha trenta di piùma di strada da fare ancora parecchia. Quella che si era interrotta un giorno d’estate lasciando a metà una storia, che oggi il Boemo e i tifosi giallorossi hanno il diritto di sapere come andrà a finire. Nemmeno è arrivato e già si rammarica per quando fu mandato via, tredici anni fa, «per un problema politico», e la squadra perdeva punti «per le decisioni di altri». Con tutto il rispetto per le ragioni che certamente avrà, avremmo bisogno d’altro che di un nuovo Martire del Calcio Pulito da sacrificare sull’altare del calcio immorale e degenerato. Vorremmo uno che faccia divertire, certo; noi però, non gli avversari. Di uno che, con la sua faccia scolpita e la sua storia cristallina, non debba diventare l’alibi per continuare a non vincere, perché tanto sarà colpa del Palazzo e della corruzione dilagante. Avremmo bisogno di uno che ci faccia vincere le partite in maniera limpida, ovvio, nella consapevolezza che il Palazzo e gli arbitri ce li avremo sempre contro. Ma per vincere bisogna che i difensori stiano in difesa, almeno ogni tanto, non sempre a centrocampo. Soprattutto se, per caso, si è in vantaggio. Speriamo che Zeman, stavolta, se ne ricordi. O almeno lo tenga presente, se proprio non vuole rinunciare ai suoi principi. (E non dica più, anche se lo pensa, che il derby è una partita come le altre. Per lui, forse; per noi no, purtroppo). Uno che non voleva rinunciare ai suoi dogmi calcistici, al punto da sostituire Totti con Okaka, l’abbiamo appena avuto.Veniva dall’Asturia, e c’è tornato. Senza che nessuno l’abbia cacciato: evidentemente non aveva il fisico per la Roma e per Roma, altro che hombre vertical! Le perplessità sul suo conto che nutrivamo un anno fa, sciaguratamente, si sono rivelate fondate. Speriamo di sbagliarci per il futuro. Anche perché, come sempre e a prescindere da presentimenti e pregiudizi, un minuto dopo che si sarà seduto su quella benedetta panchina cominceremo a tifare per lui, e gridare Forza Zeman