Zdenek Zeman alla Roma, 13 anni dopo essere stato congedato con la morte nel cuore da Franco Sensi(”Con te in panchina non ci faranno mai vincere”). Un ottimo motivo per tifare giallorosso, a prescindere da fantomatici ‘progetti’ e da schemi che in fondo può applicare chiunque. Non è che Zeman sappia tatticamente cose che a Luis Enrique erano ignote, per essere chiari. L’Italia che ama un certo tipo di calcio (e di Italia) però esulta per il ritorno dell’allenatore boemo nel grande calcio, con tutto il rispetto per un Pescara dove gli avrebbero fatto la statua equestre e un contratto in bianco di venti anni. La prendono male, armando penne forforose e microfoni alla pummarola, quelli che nei confronti di Zeman e di quello che rappresenta hanno sempre provato un’invidia che si può senz’altro definire invidia etica. E già gustano la loro pseudo-rivincita, perché la rosa della Roma è ben lontana dall’essere da scudetto e qualsiasi risultato dal secondo posto in giù permetterà di dire che Zeman in fondo è sempre il solito perdente (meglio che ladro, nel caso). Non vorremmo quindi adesso inerpicarci nella solita ode allo zemanismo, che farebbe ridere lo stesso Zeman, ma ricordare che cosa ha combinato nelle poche stagioni in cui ha avuto in mano squadre non diciamo da titolo ma almeno da zona Uefa (all’epoca esisteva ancora, così come la Coppa delle Coppe: sembra un secolo fa).
Estate 1994. Dopo l’epopea di Foggia Zeman viene ingaggiato dalla Lazio di Sergio Cragnotti, che due anni prima ha acquistato il ‘suo’ Beppe Signori e che viene da un buon quarto posto in campionato. Senza nessun grande colpo di mercato Zeman fa cambiare marcia a tutto l’ambiente: la Lazio gioca il calcio più spettacolare della serie A, con goleade memorabili (come l’8 a 2 alla Fiorentina) e vittorie clamorose contro le fortissime Juventus (che diventerà campione d’Italia) e Milan dell’epoca: 3 a 0 alla squadra di Lippi e 4 a 0 a quella di Capello. Il calcio di Zeman è fatto anche di gol subiti e così invece dello scudetto arriva un secondo posto comunque storico, a pari punti con il Parma di Tanzi, ma davanti al Milan, alla Roma e all’Inter. Nella stagione successiva le aspettative sono alte, forse Zeman non è tatticamente l’allenatore dei sogni del presidente Dino Zoff che comunque lo rispetta, ma il Milan è determinato a tornare in alto e così il secondo posto diventa terzo anche se sempre strappando applausi. Ricapitolando: con una rosa che sarebbe da gruppone dietro a quelle di Milan e Juve, Zeman arriva una volta secondo e una terzo. Sul piano dei risultati fa quindi più del suo, su quello del gioco conquista anche molti antipatizzanti. Nel 1996-97 Cragnotti gli cede uomini chiave come Boksic , Di Matteo e Winter, Zeman gli chiede di prendere un allora poco conosciuto Pavel Nedved e viene almeno in questo accontentato. Ma i risultati peggiorano e a gennaio Zeman deve lasciare il posto a… Dino Zoff, che ritrova la voglia di allenare. Ma il boemo è ormai entrato nel cuore di una città e di una nazione, abbattendo le differenze di bandiera. Per questo non ha paura di accettare nell’estate 1997 l’offerta di Sensi, che gli dà in mano una squadra che viene da un dodicesimo posto. Zeman non si scompone, chiede acquisti mirati per la difesa (Cafu e Candela, poi arriverà Zago) e crede fin da subito in un Totti che all’epoca è solo un grande talento potenziale. Con il giovane campione, Paulo Sergio e Balbo in attacco la Roma vola e arriva quarta, qualificandosi alla Uefa in carrozza. L’estate 1998 è quella della famosa intervista sul calcio che deve uscire dalle farmacie, con la Juventus che si sente chiamata in causa anche perché viene chiamata in causa. Quell’intervista cambierà per sempre la sua vita, perché da allora lui sarà da un lato messo nel mirino non tanto dalla Juventus quanto dal mondo moggiano (che aveva e ha diramazioni in tutta Italia) e dall’altro rimarrà schiavo di un personaggio che alla fine ha danneggiato l’allenatore. Per Zeman è una condanna, ma anche la Roma la paga cara: in quella stagione 1998-99 succede di tutto e di più, al punto che a Sensi fanno capire (lui non ha mai detto chi glielo abbia fatto capire, ma il messaggio arriva forte e chiaro) che per essere rispettati dal sistema occorre che in panchina non ci sia più Zeman ma un ‘uomo di calcio’. Che viene individuato in Fabio Capello, all’epoca commentatore televisivo, dopo il disastroso secondo ritorno al Milan. Quella Roma tartassata, che aveva perso il suo centravanti per sostituirlo con Fabio Junior, arriva comunque quinta e in zona Uefa mostrando un ottimo calcio. Per la cronaca, o per meglio dire la storia, al nuovo allenatore prendono subito Vincenzo Montella e il supervincente Capello arriva in campionato… sesto. Poi Sensi comprerà, a prezzi non proprio di saldo, Batistuta, Samuel ed Emerson. E sarà scudetto, con il sistema che lo premia scippando la Juventus (come era avvenuto l’anno prima con la Lazio) cambiando le regole una settimana prima della sfida decisiva. Da quell’epoca nessuno in Italia ha mai offerto una panchina importante a un allenatore che nelle poche occasioni avute aveva dimostrato, in rapporto alle rose, di essere anche un vincente secondo l’uso becero che si fa di questa espressione. Tanti complimenti, ma nessuno nemmeno ‘medio’ che abbia avuto il coraggio di ingaggiarlo. Nemmeno l’estimatore (al bar) Moratti ha mai voluto sfidare i suoi nemici, eppure nei suoi 17 anni all’Inter gli allenatori peggiori di Zeman non sono mancati. Per il boemo in questo millennio solo situazioni nebulose (il Napoli di Corbelli) o di provincia profonda. Adesso il maestro torna su un grande palcoscenico, senza rivincite da prendersi. Lui ha già vinto. Gli invidiosi etici sono invece già stati puniti dalla storia, qualcuno anche dalla giustizia ordinaria e sportiva.
Fonte: GuerinSportivo