(R. Maida) – In un’intervista di tre mesi fa a questo giornale, Zdenek Zeman dall’altare di Pescara aveva commentato le polveri di Luis Enrique: «Sta cercando di fare qualcosa di diverso alla Roma. Ma il suo possesso palla non è niente di nuovo. Lo faceva già Liedholm». Due giorni fa, nella prima conferenza stampa da allenatore della Roma, Zdenek Zeman ha dato un’altra spallata ai rimpianti per l’allenatore che lo ha preceduto a Trigoria: «Luis Enrique aveva molte idee che mi piacevano ma io magari mi proietto di più verso la porta avversaria…». E ancora: «Non devi preoccuparti troppo dei rischi che corri se in un campionato segni 90 gol». Riferimento al suo Pescara, certo, ma forse anche al gioco di Luis Enrique che concedeva tanto e in proporzione non produceva abbastanza. In comune, a conti fatti, Luis Enrique e Zeman hanno soltanto l’idea di calcio propositiva, che giustifica la continuità del «gioco attrattivo» caro a Baldini. E poi lo schema da scrivere sulla lavagnetta (o l’Ipad, nel caso di Luis Enrique) nel momento di annunciare la formazione: il 4-3-3 nelle sue diverse interpretazioni e applicazioni, con il pressing alto e una squadra d’assalto. Ma per il resto, sono due allenatori e due persone all’opposto. Del resto, non potrebbe che essere così considerando le età (hanno 23 anni di differenza) e le estrazioni diverse. Uno viene dalle Asturie e ha studiato a Barcellona, ricco e coccolato, l’altro è cresciuto nella Praga comunista ed è diventato grande nella provincia del nostro Sud, partendo dagli scalini più bassi della carriera di allenatore. E’ inevitabile che si rispettino senza amarsi.
LUIS ENRIQUE
Ai giocatori aveva chiesto solo poche regole: rispetto reciproco tra compagni; puntualità assoluta, con tanto di foglio presenze da firmare all’ingresso a Trigoria; intensità massima negli allenamenti. Su quello è stato inflessibile: ne sa qualcosa Osvaldo, escluso dalla partita di Firenze per il pugno a Lamela; l’ha capito De Rossi, sospeso a Bergamo per un ritardo alla riunione tecnica; hanno pagato via via Borriello, Juan, Pizarro, Cicinho e molti altri, a cui veniva attribuita la colpa di non allenarsi al massimo delle proprie possibilità. Per il resto Luis Enrique aveva importato una mentalità che alla squadra è piaciuta: abolite le doppie sedute, annullati i ritiri in casa e, scelta ancora più trasgressiva, trasferte di un solo giorno quando l’orario notturno lo consentiva.L’operazione leggerezza non ha funzionato ma da molti – Baldini in primis – viene rimpianta. Nella tattica di Luis Enrique, il 4-3-3 diventa in fase offensiva un 3-4-1-2 perché il centravanti fa il trequartista, il regista scala sulla linea dei difensori per impostare l’azione e i due terzini si alzano nello stesso momento sulla linea dei centrocampisti, per offrire un’opzione di passaggio sulla fascia. L’obiettivo è coinvolgere più uomini possibile nella costruzione del gioco, con una grande densità in mezzo al campo e un’insistita rete di passaggi: il famoso possesso palla, che è stato un manifesto programmatico del calcio alla catalana (o meglio asturiana). In questo modo, Luis Enrique sperava di tenere il controllo della partita e di sfiancare gli avversari costringendoli ad aprirsi, anche a costo di aspettare e rimandare la conclusione dell’azione. Questo sistema doveva essere nelle sue intenzioni il primo aiuto alla fase difensiva, perché portava la palla lontano dalla porta. Ma questo meccanismo è stato neutralizzato molto spesso dagli allenatori speculativi: difesa e contropiede. Soltanto una volta nel corso della sua complicata stagione italiana Luis Enrique ha fatto un commento sull’operato dell’arbitro. Alla fine del derby di ritorno, perso in circostanze simili all’andata, disse: «Mi piacerebbe la prossima volta finire in undici una partita con la Lazio». Il riferimento era all’espulsione di Stekelenburg decisa da Bergonzi nei primi minuti, per il fallo da rigore su Klose, che veniva dopo il rosso a Kjaer del primo derby. Ma è stata un’eccezione alla sua regola comportamentale.Luis Enrique aveva conquistato Baldini perché durante l’incontro decisivo per la firma del contratto aveva assicurato di non essere interessato agli arbitri, di volerli trattare «come se non ci fossero, per non creare alibi, per non dare sempre la colpa agli altri». E’ stato coerente con le promesse, ricordando molte volte che «è importante migliorare le cose che si possono controllare: le altre non mi interessano». Luis Enrique trattava tutti i giocatori allo stesso modo. L’ha dimostrato con i fatti, escludendo Totti per scelta tecnica e mandando in tribuna De Rossi per una pecca comportamentale. E’ stata proprio la gestione dei due leader della Roma la sua (riuscita) innovazione. Luis Enrique ha conquistato la loro fiducia dimostrandosi un uomo onesto, che decide soltanto in termini di efficienza per la squadra, responsabilizzando i campioni senza considerarli interlocutori paritari. In questo senso, sia Totti che De Rossi, hanno accettato un ruolo nuovo. Totti ha perso il privilegio del centravanti che demoliva (e ancora demolisce) record su record, tornando a muoversi da trequartista come a inizio carriera. De Rossi è diventato il regista difensivo, a volte anche un centrale di difesa, e ha interpretato lo spostamento in maniera eccellente. Tanto che adesso quel ruolo vorrebbe tenerlo
ZEMAN
Può sembrare una restaurazione, il ritorno a un mondo antico. Perché con Zdenek Zeman si rivedranno i sistemi di lavoro tradizionali degli allenatori di serie A, adattati a un calcio unico e inimitabile. Cioè, è prevista per la Roma una preparazione atletica molto dura, nel ritiro estivo e non solo. Nei primi due-tre giorni a Riscone di Brunico i giocatori saranno impegnati quasi esclusivamente in corsa ed esercizi. Se con Luis Enrique si usava molto il pallone, anche a ritmi velocissimi, con Zeman si punterà tantissimo sul fondo, sulla benzina da mettere nelle gambe. Anche durante la settimana tipo, quella senza partite, ci saranno doppie sedute di allenamento. E la prima, quella che di solito capita di martedì, sarà quasi solo atletica. Verranno poi provati ossessivamente gli schemi, le sovrapposizioni, le verticalizzazioni. Infine, sarà reintrodotto il ritiro con le trasferte “normali”: partenza un giorno prima. I rischi del gioco di Zeman sono simili a quelli che calcolava Luis Enrique. Esasperando il pressing per recuperare il pallone il più vicino possibile alla porta avversaria, quindi cominciando dagli attaccanti, la squadra ha bisogno di accorciarsi, per non lasciare spazi vuoti tra un reparto e l’altro. Per questo, solo per questo, la linea difensiva (sia di Luis Enrique che di Zeman) deve stare molto alta, sperando che il fuorigioco scatti come una tagliola al momento giusto. Altrimenti è inevitabile che si conceda un’occasione da gol. Ma non ci sono alternative, se il principio è di giocare all’attacco anche quando il pallone ce l’hanno gli altri. Dove i presupposti divergono è nella fase offensiva: Zeman non punta sul possesso palla ma sulle verticalizzazioni, sui tagli, sulle sovrapposizioni, su un 4-3-3 fatto di tanti piccoli triangoli nell’azione. La preparazione atletica viene di conseguenza: se i giocatori non sono al top, diventano prevedibili, allungano la squadra e vanno in sofferenza. Credo sia giusto far notare se gli arbitri hanno sbagliato».«Non siamo una dittatura e da parte nostra non c’è un diktat ma solo un orientamento: ognuno può dire quello che vuole». Questo scambio di battute tra Zeman e Baldini è andato in scena martedì, davanti ai microfoni e alle telecamere durante la presentazione della nuova Roma a Trigoria. E’ una chiara differenza di vedute tra l’allenatore e chi sceglie gli allenatori. Perché Baldini aveva impostato un modello etico di un certo tipo, che prescindesse dalle critiche agli arbitri, mentre Zeman è sempre stato un amante dell’ironia, delle provocazioni e delle frasi forti. Cambierà Zeman o cambierà Baldini? Forse nessuno dei due. Semplicemente capiteranno delle partite in cui Zeman attaccherà gli arbitri e Baldini, pochi metri più in là, eviterà l’argomento. Sarà una Roma più democratica, magari. Nel presentarsi ai tifosi, Zeman ha brevemente parlato anche di Totti e De Rossi. Da una parte ha chiarito che Totti sarà sfruttato come una risorsa e non gestito come un problema. Ergo: non aspettiamoci favoritismi nonostante una stima reciproca pazzesca (Zeman dice di Totti che è stato il miglior giocatore da lui allenato, Totti risponde che Zeman è il calcio). Dall’altra ha ammesso di considerare De Rossi un centrocampista diverso da un regista e di non vederlo assolutamente come un difensore. Cosa significa questo? Che De Rossi sarà uno dei due interni del 4-3-3. Almeno nelle intenzioni, e non considerando le situazioni di necessità estrema, Zeman lo vede lì. Totti, invece, dovrebbe tornare a fare il centravanti ma non è sicuro: potrebbe essere provato come esterno d’attacco, come quindici anni fa. Perché, secondo Zeman, «da centravanti prende troppe botte. Se fosse rimasto nella posizione in cui lo schieravo io, avrebbe giocato fino a 50 anni…».