(S. Mannucci) – Per chi ci crede, il tabacco ha sostanzialmente due effetti: ti intossica i polmoni ma può purificarti l’anima.
Il tempo in cui brucia la sigaretta può indurti a capire come funziona davvero il mondo, che quando nasci trovi già avvolto in una cortina angosciosa, la cappa quasi impenetrabile dei soprusi e del potere che cercherà di avvelenarti l’esistenza. Zdenek sa bene cosa rappresentano quelle volute di fumo: per lui, almeno, che è un epigono dello Zeno sveviano, con le sue struggenti amarezze private, ma anche uno dei misteriosi figuranti che affollano i romanzi di Kundera, quelli che poi lasceranno una traccia decisiva nella storia, l’insostenibile leggerezza di Zeman che dà senso a tutta la trama. La sua faccia, che dicono indecifrabile, beffarda, sorniona, che non sai mai se stia per aprirsi in un sorriso – il sorriso amaro e obliquo di chi ti saluta furtivo sul Ponte Carlo – o rivelarti che per te non c’è salvezza, se non cominci a correre e ti crei un destino lontano dalle ombre, da quegli individui che forse ti seguono, con il bavero dell’impermeabile rialzato, i segugi della sopraffazione.
Provate voi a ridere di gusto, come un mediterraneo, dopo tutto quello che lui ha visto, prima e dopo aver contratto il vizio del fumo. Provate voi a dimenticare quella notte di agosto del 1968, quando lui e la sorella Jarmila furono buttati giù dal letto perché era arrivata la notizia che i cingolati sovietici marcavano il solco nelle amate strade di Praga. Erano al sicuro, loro due, ospiti in Sicilia di zio Cestmir Vycpalek, e buon per loro, perché la fierissima Jarmila s’era sempre rifiutata di indossare il fazzoletto dei “Pioneri rossi”, e quante grane scolastiche aveva procurato quel gesto a lei e al fratello. […]
Forse fu in quella proroga di vacanza forzata che il ragazzino Zdenek cominciò a capire che se devi opporti al prepotente non devi emulare l’eroismo dissennato e suicida di Jan Palach, ma ricordarti che Piazza San Venceslao è territorio cecoslovacco, è roba tua, non devi darti fuoco, ma occupare lo spazio che ti appartiene e ricacciare indietro l’invasore, devi metterci metodo e non follia, corri e attacca, inventa un 4-3-3 nel quale il tuo spirito non potrà mai essere umiliato, comunque vada. […]
E per arrivare alla foce di quel mal sottile devi inventartene un’altra, come fece il piccolo Zdenek che allagò con un idrante uno spiazzo davanti casa perché congelasse e lui potesse tornare a sognare con l’hockey. Provate voi a non crollare di brutto quando aspettate con ansia che il cugino Cestino, il figlio di zio Vycpalek, torni in quella Sicilia che ormai è terra tua, il dolce esilio degli agrumeti e dello stordimento sensuale dell’aria, ma quel giorno l’aria comincia a puzzare di disastro, finché il telefono ti annuncia che Cestino non salirà mai più con te sull’utilitaria scassata per fare scorribande nelle contrade di Sciascia, Cestino è morto carbonizzato dentro l’aereo Alitalia che si schianta a Punta Raisi, e la tua giovinezza non sarà mai più spensierata.
Devi inventartene ancora un’altra, per andare oltre, per non ruzzolare a terra ad ogni tackle del destino. Per sopravvivere devi capire, come accade a Zdenek, che la vita è tutto un paradosso. Tuo padre è un medico, ma un giorno il sistema del calcio ti sputerà via perché pronunci la parola «farmacie» in un’intervista in cui volevi sottolineare che il calcio è bello «perché in ogni angolo del mondo c’è un bambino che insegue un pallone». E tuo zio ti ha fatto innamorare dell’Italia perché allenava la Juventus, ma proprio quella sarà la società che ti farà la guerra, non c’è carro armato di Mosca che tenga il confronto, tu hai oltraggiato il Palazzo e ti cacceremo via. […]
Quanti paradossi, caro Zdenek: come quando ti cimentasti per la prima volta come allenatore, i ragazzini del Bacigalupo, e il presidente era il raffinatissimo, potentissimo Marcello Dell’Utri. La tua faccia che non è mai nascosta del tutto dal tuo amato fumo, ma lascia appena intuire ciò che sai: che forse non è così importante vincere un campionato, ma far correre Totti come se avesse dieci anni di meno, e vedere la maschera di Moratti imbalsamato in tribuna. Tanto, arriva sempre un tempo in cui i poeti conquisteranno tutto. Come ti aveva insegnato Vaclav Havel.