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LIBEROQUOTIDIANO.IT Zeman comunista? No, un genio: la sua ortodossia è la follia

Zdenek Zeman

(A. Tempestini) – Affascinante, elegante e ironico, il ritratto dello Zdenek Zeman comunistadipinto da Giuseppe Pollicelli sulle pagine di Libero, non è stato compreso. E non mi ha convinto. Necessaria premessa, le parole sul tecnico boemo sono state sovraccaricate di signficato: l’articolo, proprio come la storia personale del mister, correva sul sottile filo del paradosso. Un paradosso che è stato banalizzato e attaccato: sul nostro sito, nei bar, nelle radio romane e anche da altri quotidiani sono piovute critiche (ottuse). Pollicelli ha smontato l’ideologia rossa in piccoli cubetti, e con abilità retorica ha applicato questi cubetti all’allenatore-Zeman:l’adesione fideistica, la cieca fiducia nelle promesse della falce e martello, il sacrificio dell’individualitàil mito del riscatto dei perdenti, le sconfitte e le bugie. Un’operazione onesta, sagace, che voleva offrire molteplici spunti di riflessione (uno in particolare mi ha colpito, quando afferma che “non sono mai le idee a doversi adattare alla realtà, è la realtà che deve piegarsi agli schemi dell’ideologia”; convincente). Gli spunti di riflessione, in toto, sono stati respinti dai lettori con un corredo di beceri insulti. Una follia.

Che lo “Zeman comunista” fosse una boutade era chiaro sin dalle prime righe, dove si ricordava la fuga di Zdenek dalla Praga occupata dai tank sovietici. Meglio raccogliere la divertente e compiaciuta provocazione e rilanciare. No, uno Zeman rosso io non lo accetto. L’espediente ideologico è trasversale: l’adesione fideistica, la cieca fiducia nelle promesse, il mito del riscatto dei perdenti, la disciplina di partito e “il nemico giurato” sonoteoremi applicabili a qualunque deriva. Rilanciare affermando che Zeman è un fascista? No, nemmeno per idea (meglio mettere le mani avanti, non sia mai). Semplicemente, l’ortodossia del boemo mi pare tutta sua, un unicum che con l’ortodossia di partito ha ben poco da spartire. Un’ortodossia folle (ossimoro) e attraente che ha a che fare solo col calcio (o quasi). Zeman non ha mai vinto nulla; Zeman ha allenato per la stragrande maggioranza della sua carriera il sottobosco dell’italico pallone, ma è oggi la prima star della Serie A; Zeman odiato dagli juventini è venerato da tutti gli altri colori del calcio italiano (a chi riesce l’impresa di farsi accogliere ovunque come un eroe?); Zeman che salta dalla panchina della Lazio a quella della Roma e si fa amare, subito; Zeman che fa sei gol a partita e ne prende quattro; Zeman scopritore di talenti; Zeman che fuma 40 sigarette al giorno e nel giorno della partita ne schiuma 60. Un’accozzaglia di particolarità in grado di renderlo unico, magico, geniale e malinconico.

Io, Zeman sulla panchina della mia squadra lo ho sempre sognato, chissenefrega dei risultati (e non sono comunista). Di soldi in abbonamenti ne ho spesi tanti, e di squadre brutte ne ho viste ancor di più: dal Milan muscolare e vincente di Capello a quello irritante e cinico di Allegri, passando per altri “mostri” a breve scadenza e qualche creatura di Ancelotti tutt’altro che esaltante. Tutti migliori di Zeman? Può darsi. Ma non posso non avere un debole per un tecnico che pensa solo e soltanto a fare un gol in più, a un mister che “io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant’anni, all’aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire”. Zdenek il professore, per inciso, non è mai stato un calciatore professionista. Insegna calcio (bene? Male? Fate voi…) senza averlo mai giocato ad alti livelli. Solo un genio (come Mourinho) può farlo. Solo una mente poliedrica (e il comunismo è tutt’altro che “poliedrico”) avrebbe potuto scoprire e lanciare i vari Totti, Signori, Baiano, Vucinic, Bojinov, Immobile, Insigne, Verratti. Anche dei bidoni, per carità, ma per spacciare un bidone per campioncino ci vuole talento, a dimostrazione che l’individualità, per Zdenek, è importante quanto la collettività.

L’ortodossia di Zeman, semmai, sta nel modulo: “Modulo e sistemi di allenamento non li cambierò mai. Per coprire il campo non esiste un modulo migliore del 4-3-3”. Su questo, come ho scritto qualche riga sopra, Pollicelli mi ha stuzzicato. “La realtà che si piega agli schemi dell’ideologia”.Possibile. Secondo me, al contrario, si tratta di folle spavalderia. A me gli svitati e gli spacconi sono simpatici. Adoro Zeman come adoro Josè Mourinho (definito da Zdenek un “mediocre”. Lo Special One rispose: “Chi è? Ah, è un allenatore. Della Roma. Non lo sapevo… Ora che sono in vacanza ho un sacco di tempo libero, mi informerò su Google su cosa ha fatto e cosa ha vinto…). Uno scontro tra matti. Zeman mi affascina come mi affascinano i racconti su Brain Clough, il mister che portò il Derby County sul tetto dell’Inghilterra e il Nottingham Forest su quello del mondo. Clough, come Zeman, allenò il sottobosco di un paese (ma a differenza di Zdenek lo trasformò in oro). Clough, come Zeman la Juve, aveva un nemico giurato: i “ladri” del Leeds United di Don Revie.

Polemiche – quelle tra Clough e il Leeds – con una stagionatura di trent’anni. Quelle (infinte, su doping e “ruberie”) tra Zeman e i bianconeri sono più recenti. Nel merito non mi appassionano, le trovo stucchevoli (magari un giorno ne sorrideremo). E’ il contesto che mi scalda, è la tenacia con cui Zeman si scaglia contro il “nemico” (proprio come l’ossessione per il gol) a conquistarmi. Del boemo è la follia (tutt’altro che ortodossia rossa), è l’eterna passione nelle battaglie (perse) a conquistarmi. Perché, come ricorda lo juventino doc Giampiero Mughini, Zeman è “un grande allenatore ma anche un impagabile cabarettista quando si tratta di lanciare veleno anti-juve”. E – scontato che sia un grande allenatore – un cabarettista non è un comunista. E’ il “performer” che ha dato entusiasmo a una Serie A in coma, è l’uomo-contro che si sottopone al giudizio del pubblico, è il “perdente” che attacca ossessivamente la squadra più vincente e gloriosa d’Italia. Zeman è questione d’empatia, non di ortodossia. Un’elettrica empatia che gli juventini, vittime sacrificali del mito, per ovvie ragioni non possono provare.


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