(F. Spicciariello) La debacle in cui è caduta la Roma, nonostante un mercato che fino a dieci giorni fa è stato considerato eccellente, sta riportando agli onori della cronaca la questione delle proprietà americane nel calcio europeo, finora non molto convincente (vedi Liverpool), ma che al contrario per gli arabi, sono molto appassionato di business e di programmazione.
Sono giorni difficili per Roma, schiacciata sabato notte dalla Juventus con un pesante 4-1. La polemica era inevitabile in un ambiente caldo come quello della capitale, ma, lasciando l’aspetto tecnico, è interessante come alcuni hanno iniziato a spostare l’oggetto della loro critica ai piani superiori . Un paio di esempi. La colonna di un noto osservatore romano: “Andrea Agnelli è negli spogliatoi prima della partita. Pallotta, naturalmente, era da solo”. Il commento su Repubblica dall’ex direttore del Corriere dello Sport: “Non vi è alcun diritto di proprietà. E per discutere di quello che sta succedendo, di solito ci sono i manager: di sicuro, buoni manager, ma ciò nonostante i dipendenti “.
ROMA E LIVERPOOL A casa Liverpool, ci sono malumori simili a quelli romani. Il Liverpool è stato acquistato nel 2012 dal Fenway Sports Group per circa 380 milioni di dollari. Guidati da John Henry e Tom Werner, la FSG ha spinto i Boston Red Sox alla vittoria in MLB dopo ben più di 86 anni, ma ha chiesto un po’ di pazienza per i tifosi del Liverpool, spiegando la necessità di passare attraverso un periodo di “ricostruzione”. Un concetto tipicamente americano, che, naturalmente, due anni consecutivi di insuccessi (i Reds stanno vivendo il loro peggiore inizio di stagione dal secolo scorso fino ad oggi) hanno reso ancora più straniero per i tifosi della Kop. In realtà, all’inizio la nuova proprietà sembrava ideale per i tifosi. Da un punto di vista commerciale, FSG ha subito mostrato che cosa è capace di fare: 230 milioni di dollari da Warrior theBostonian per le uniformi, 132.600.000 dollari dal StandardChartered, il nuovo sponsor. Sul campo invece, il mai amato allenatore Roy Hodgson, è stato cacciato per essere sostituito dal mito Kenny Dalglish, che, unitamente al direttore Damien Comolli, ha speso 150 milioni di euro in pochi mesi senza risultati particolari, con l’inevitabile licenziamento di entrambi. Da qui, un cambio di leadership, con il potere dato all’ex-direttore commerciale e poi direttore generale Ian Ayre, con una campagna di acquisizioni orientata verso il risparmio e molti errori seguiti da critiche senza fine. Nei primi giorni di settembre John Henry, personaggio di un carattere molto riservato (anche se ha un profilo Twitter, usato raramente), in una lettera aperta ai tifosi, ha scritto: “La spesa non significa solo acquistare talenti. Le nostre ambizioni non si limitano solo a mettere insieme una squadra di metà classifica con giocatori costosi, che sono comunque in grado di contribuire solo per un paio di anni (con riferimento alla mancata acquisizione del 29enne americano Clint Dempsey.) L’enfasi della nostra azione è focalizzata sulla crescita dei nostri giocatori e una direzione tecnica sempre migliore”.
Parole simili, sono state usate a Roma dal suo ex-presidente Thomas R. DiBenedetto, da quello attuale, James Pallotta, e da Paolo Fiorentino, direttore generale di Unicredit (azionista di maggioranza insieme agli americani), che ha recentemente dichiarato: “La direzione è più importante del nome del presidente. Pensiamo di aver fatto un investimento eccezionale in materia di gestione, nessun club in Italia è articolato così. Da Baldini a Sabatini, passando per Fenucci. Per noi, questo è il componente chiave e una grande garanzia”. Per i manager controllare un club, è un concetto normale nel mondo delle imprese a livello internazionale, ma chiaramente molto meno in Italia, tanto meno nel mondo del calcio (in Inghilterra anche in parte.)
Proprietà americana: problema o opportunità? – Ci sono anche problemi simili in altri club di proprietà di americani. L’Arsenal è gestito dal miliardario Stan Kroenke, che possiede anche altre squadre negli Stati Uniti, ha un sacco di soldi, ma non sembra avere alcuna intenzione di usarli per il club di Londra. Diritti televisivi, merchandising e uno stadio splendido come quello di Emirates consentire ai Gunners di vivere ai livelli elevati di Premier League e di essere presenti, ogni anno, in Champions, grazie anche alla sapiente gestione tecnica del francese Arsene Wenger (che ha una laurea in economia ed è molto consapevole di limiti di spesa). Ma i tifosi dell’Arsenal non odorano la vittoria dal 2006/07, e Kroenke ora si è guadagnato la reputazione di un uomo silenzioso e avido.
Un altro caso è quello dell’ Aston Villa, di proprietà di Randy Lerner, che ha recentemente venduto i Cleveland Browns NFL in cambio di un miliardo di dollari, e la cui passione per il calcio fa di lui un caso diverso in termini di sforzi e investimenti diretti. In effetti, a partire dal 2006, anno in cui è diventato il proprietario dei Villans (a pagamento di £ 62.600.000), Lerner ha investito 166 milioni, oltre a una somma sconosciuta di prestiti per il club. Tuttavia, i risultati non lo hanno premiato, e a Birmingham Villa Park, i biglietti disponibili abbondano. E nel 2011, anche in vista dell’attuazione del regolamento UEFA del fair play finanziario, l’Aston Villa si è visto obbligato a vendere alcuni dei suoi migliori giocatori in modo da ridurre l’eccessiva spesa per gli ingaggi. Il Sunderland, di proprietà del fondo di private equity Lone Fondi Stelle, con a capo l’americano Ellis Short, non sta facendo meglio. E ‘stato proprio a lui a dichiarare pubblicamente di non avere alcuna intenzione di interferire con le scelte tecniche dei dirigenti, guidati dall’ex attaccante della Nazionale irlandese del team Nial Quinn, al fine di trattare esclusivamente gli aspetti finanziari e di business.
Situazioni simili si possono trovare anche nei due club di Championship (la nostra Serie B) di proprietà di americani. Il Millwall, di proprietà del bostoniano John G. Berylson, un miliardario ex-marine che sostiene i Boston Red Sox, e che, prima dei Lions, aveva preso di mira il Liverpool insieme con il proprietario del New England Patriots, Robert kraft. E al Derby County, il cui maggior azionista è Thomas S. Ricketts, anche esso proprietario della franchigia MLSB dei Chicago Cubs, insieme a Andrew D. Appleby, fondatore di Sport generali e Spettacolo, una struttura non tanto diversa rispetto a James Pallotta, fondatore della Raptor Accelerator, il cui amministratore delegato è Mark Pannes, il quale, a sua volta, è CEO della Roma.
L’ultimo caso è forse quello più evidente in tutto il mondo. Sicuramente, è quella del Manchester United, di proprietà della famiglia Glazer (che possiedono anche i Tampa Bay Buccaneers nella NFL) dal 2005, quando fu acquisita con una somma mostro di 1,47 miliardi di euro, tra cui 850 milioni di dollari di debito a carico dello stesso club. Una scelta che fece infuriare i sostenitori dei Red Devils, che in segno di protesta istituito un club rivale a livello locale, recuperando il nome e i colori originali dello United. Ma non importa quanto sono grandi i tassi di interesse che il club deve pagare ogni anno, da allora, il Manchester United ha vinto 4 Premier League, FA Cup e una Champions League sotto la guida del tecnico scozzese Alex Ferguson, il padrone vero dell’Old Trafford. I giocatori intanto continuano a sbarcare a Manchester, come si è visto con l’arrivo in estate con l’ex attaccante olandese dell’Arsenal Robin Van Persie. E il motivo per cui la direzione aziendale ha trasformato MUFC in termini di valore secondo la tabella compilata da Forbes, grazie anche alle offerte di sponsorizzazione eccellenti con aziende come Nike, DHL e, a partire dal 2014, General Motors. Tutti sono in fila per essere visti dai 689 milioni di tifosi che il Manchester United ha sparsi per il mondo.
Le differenze di approccio. E in materia di contabilità e quindi, di situazioni analoghe condivise tra i club con una ricca proprietà americana, che, però, non è incline a investire i suoi miliardi per acquisire giocatori, così come i loro omologhi arabi a Manchester City e PSG, o il russo Roman Abramovich al Chelsea. Gli americani che tuttavia, attraverso il loro arrivo, trasformano i propri club, andando avanti insieme (come nei casi di Liverpool e ASRoma), garantendo loro una struttura commerciale in grado di fornire e delegare la gestione delle operazioni tecniche. E, nonostante qualche risultato altalenante in campo, la Roma rappresenta un modello in Italia, una struttura tecnica guidata da personaggi come Franco Baldini e Walter Sabatini, e con il tedesco Christoph Winterling, è arrivato un aiuto da Adidas per aiutare i ricavi a salire.
A quanto pare, però, questo tipo di approccio non sembra essere apprezzato sia dai giornalisti che dai sostenitori, e sembra che non si possa ritenere adeguato al calcio europeo. Ma il problema si trova alla fonte. Spesso, l’arrivo di un ricco americano, nella testa di un europeo, produce il suono scintillante di dollari. Purtroppo, però, i giornalisti si dimenticano di spiegare come gli sport USA sono un business, al contrario che in Italia, dove agiscono come un posto dove andare per poi fare affari da qualche altra parte. Nella verifica dei bilanci dei club europei (una ricerca di 655 club UEFA nel 2009, ha messo in evidenza perdite cumulate per oltre 1,2 miliardi di euro), rispetto a quelli di campionati americani che giocano in stadi di dimensioni simili come quelli di calcio, il divario è impressionante: nella NFL, la media EBITDA è stato di 41 milioni di dollari per franchigia nel 2011, nella major League Baseball, d’altro canto, è stato di 14 milioni di dollari.
Freddi calcoli quindi ci dicono che il modello di proprietà americana è quella giusta, ma i tifosi si lamentano perché vedono PSG, ManCity e Chelsea investire miliardi sul mercato dei giocatori. Ma questo è un problema che riguarda in primo luogo la UEFA e la sua capacità di attuare, in modo serio, le regole del fair play finanziario di cui si è dotata, evitando i sistemi di evasione su cui alcuni club stanno lavorando seriamente, ipotizzando o già attuando sponsorizzazioni milionarie improbabili da società collegate. Solo quando le norme sopra citate sarà completamente in vigore e applicate tutti, la lezione d’affari americana sarà compresa (insieme con le conseguenti ripercussioni sugli aspetti tecnici). Ma probabilmente, sostenitori e giornalisti/sostenitori (categoria diffusa nella città capitale) continueranno a lamentarsi.