(G. Dotto) – Squilla il cellulare. Una ragazza di una radio locale mi chiede con grazia se sono disponibile per un intervento. Sono disponibile. Parlo con gente che sa il fatto suo, rispondo, mi diffondo, pontifico quasi mezz’ora su tutto lo scibile romanista. Zeman, Baldini, De Rossi, Osvaldo e Totti. Saluto, smorzo la tromba, chiudo. Avverto un oscuro disagio. Sento di aver partecipato una volta di più a un festino collettivo che ha qualcosa di abnorme, se non di malsano. Nello stesso istante in cui scrivo queste cose, pomeriggio inoltrato, radio romane sparse sono accese a perdifiato sul tema, conduttori in sede, opinionisti e ascoltatori al telefono. Sarebbe lo stesso se fosse l’alba o notte fonda. Un blob gelatinoso che ogni giorno si gonfia, evacua e ricomincia daccapo la mattina dopo. […]
E’ la democrazia del microfono, la Roma città aperta dei giorni nostri. Da queste parti un microfono non si nega a nessuno. Il piatto forte di questi giorni è Daniele Rossi, l’ultimo osso da spolpare. Era un eroe della pelle romanista, è diventato un fellone, un mangiapane a tradimento, uno scansafatiche, secondo alcuni uno che rema contro. Da spedire con urgenza altrove. Risultato: le vene del suo collo non diventeranno più turgide, almeno dentro una maglia gialla e rossa. Il ragazzo ha sale in zucca, avrà capito qualcosa in più sulla psicologia di massa e troverà meno angoscioso a gennaio l’eventuale aereo per Manchester, Parigi o Madrid. Tutto si annulla nella marmellata delle voci. Tutto e il contrario di tutto. E’ stato così con Pizarro, Vucinic, Borriello, tanti altri prima di loro. Perfino l’Intoccabile, Francesco Totti, è stato a un passo dalle foibe radiofoniche.
Franco Baldini ha ragione e torto allo stesso tempo. Ha ragione quando dice che Roma è una città calcisticamente impossibile, intossicata dall’abuso di parola. Ha torto quando denuncia il problema come puro malessere da esorcizzare con il “bel gesto” della sottrazione, così caro alla sua estetica della vita. Dice “non me li filo” ma poi dimostra, nei fatti e nelle ansie, di filarseli eccome, anche troppo. Il fenomeno esiste, può dispiacerti quanto vuoi, ma non si elude con una formulazione elegante, tantomeno negandosi al telefono o all’invito a cena. Se vuoi ignorarlo devi farlo fino in fondo, se accetti di confrontarti lo fai senza timidezze. In entrambi i casi, con la necessaria virilità. Lo sfogo urlato del ragazzotto senza arte nè parte che alimenta via etere il proprio ego, rilanciato dai siti web e dai social network, incide oggi più del concetto su carta di un opinionista togato. Che, a sua volta, per tenersi a galla cede volentieri alla tentazione di diventare quello che non è mai stato, un tribuno microfonato. E’ il mondo che si è trasformato, bellezza. E non vuol dire che sia un mondo migliore.
Io sono per il confronto, meglio ancora lo scontro. I temi non mancano. Uno su tutti: le radio locali romane hanno modificato, più della stessa televisione, l’indole del tifoso? Dirottato la sua libido dallo stadio della domenica alla chiacchiera della settimana, da comparse qualunque del rito collettivo a protagonisti, si fa per dire, della piazzata mediatica? Esaurito il suo godimento nella parola, il tifoso, svuotato, si accascia la domenica in una comoda poltrona sintonizzata su Sky o Mediaset. Un tifoso impoverito. Il tema è anche un altro. Questa democrazia selvaggia della parola a tutti fa il gioco dei peggiori. E cioè, improvvisatori, mestatori, quelli che tengono famiglia, la propria, e vogliono sfasciare quella degli altri.
In questo suk dell’oralità sfrenata trovi di tutto, ragazzi di talento e rabbiosi giacobini, professionisti con i fiocchi e avventurieri senza avventura. Non aver regolamentato radio e internet apre a un teppismo illimitato della parola dalle conseguenze a volte spassose (vedi il noto calciatore che, colto da euforia da twitter, c’informa di tutto, che si è appena infilato il pigiama per andare a letto ma poi perde la trebisonda, insulta o prende a schiaffi il detrattore che, invece di congratularsi per il suo pigiama, lo svillaneggia).
La domanda è: se si esige una patente per guidare uno scooter o il porto d’armi per tenere in casa una Beretta, perchè non prescrivere una patente anche per guidare un microfono, che è pericoloso almeno quanto uno scooter o una Beretta? Si chiama circo mediatico, ma non c’è circo, anche il più straccione, che non faccia l’esame al saltimbanco.