(M.Izzi) – Cercare di imprigionare Nils Liedholm in una dimensione priva di sfumature è profondamente sbagliato. Lo svedese ha saputo essere il filosofo impassibile che dopo i gol segnati ammoniva i suoi giocatori ricordandogli: “Voi festeggiate, ma ricordatevi che avete perso la palla”, ma anche l’uomo incrollabilmente convinto dei poteri magici di Mario Maggi, un guaritore originario di Tarquinia che lo aveva liberato in sole tre sedute dall’ulcera che lo tormentava.
Superstizioso fino all’eccesso(uno dei suoi vezzi era quello di ordinare le scarpe nello spogliatoio prima delle gare), ma in possesso di una cultura a tutto tondo, vigile (ma sapeva quando chiudere un occhio) nelle lunghe nottate di ritiro affinché i suoi ragazzi conducessero vita d’atleta, ma pronto, nei suoi anni verdi a fuggire dal ritiro della nazionale svedese per un incontro galante. Al di là di tutto, Nils Liedholm, Campione olimpico nel 1948 e Vice Campione del Mondo nel 1958, è stato il personaggio di maggior peso nella storia calcistica mondiale ad aver ricoperto la guida tecnica della AS Roma (ci perdoni l’immenso Fulvio Bernardini). Liedholm e la Roma, una storia iniziata nel 1947, grazie …alla Juventus. I bianconeri di Boniperti festeggiavano in quella stagione il cinquantesimo anniversario della fondazione. Per celebrare l’avvenimento venne organizzata una amichevole contro il Norkoeping. Nils e i suoi compagni, contro tutti i pronostici, espugnarono Torino, 0-2 e brindisi della vecchia signora rinviato al centenario.
Come premio per la grande impresa i giovani atleti svedesi vennero gratificati da un viaggio nella capitale del bel paese. Nell’estate del 1949 il “Barone” si trasferisce in rossonero, una scelta professionale che pagherà con il più grande dolore della sua carriera sportiva per la dabbenaggine della federazione svedese che, bollandolo come professionista, rinuncerà a convocarlo per i campionati mondiali del 1950 e del 1954. Il 17 giugno 1951 Liedholm vive allo stadio Flaminio la giornata più amara della storia romanista. I giallorossi hanno l’ assoluta necessità di battere il Milan, già matematicamente campione d’ Italia, per poter sperare di rimanere in serie A. Nelle file giallorosse gioca Knut Nordahl, fratello maggiore di “Gunnar”, il “Pompierone” rossonero. Il Milan praticamente non gioca, lo stesso Liedholm grazia Risorti in un paio di occasioni con delle improbabili conclusioni. L’estremo giallorosso, toscano verace, ha sempre ripensato a quel match con un filo d’imbarazzo, il tiro di Liedholm, “quello vero”, era devastante, il milanista l’aveva fortificato da ragazzino, quando Adalfsjar, il suo primo maestro, lo faceva calciare scalzo, con un pallone bagnato (e dunque più pesante) e con il laccio.
Era una vera tortura, le sue caviglie si gonfiavano, i piedi sanguinavano, ma le sue conclusioni divennero delle vere fucilate. Ne sa qualcosa il portiere del Milan Buffon, in un allenamento ebbe la bella idea di sfidarlo ai calci di rigore. Lo svedese lo infilò per 34 volte di seguito. Ma quel 17 giugno, Nils, aveva caricato a salve, la Roma vinse, ma per la concomitante vittoria del Padova contro il Napoli di Amadei finì comunque in serie B. La leggendaria cannonata, rimase nel bagaglio tecnico di Liedholm fino a tarda età, l’aveva ancora nel 1973, quando approdato per la prima volta sulla panchina giallorossa, bombardava personalmente Paolo Conti nelle sedute di allenamento, lasciando a bocca aperta tutta la rosa di prima squadra che si fermava ad ammirare lo spettacolo. A varare il primo consolato dello svedese al servizio della lupa aveva pensato Anzalone che, il 26 novembre, dopo il capitombolo della Roma a Foggia, aveva deciso l’esonero di Scopigno. L’ incipit di Liedholm è terrificante, sconfitta casalinga con il Napoli il 2 dicembre e nuovo capitombolo nel derby del 9 dicembre. La Roma e il suo nuovo tecnico a quasi un terzo del torneo precipitano all’ultimo posto a parimerito con il Bologna. Nils, prese le misure, dà vita ad una incredibile ascesa che non si limita all’ottavo posto finale ma prosegue e culmina nella stagione successiva con un meraviglioso terzo posto a quattro punti dalla Juventus campione d’Italia (mai, dopo lo scudetto del 1941/42 i giallorossi erano stati capaci di avvicinarsi così tanto alla vetta del torneo). Al termine della stagione 1976/77 il suo primo ciclo si esaurisce, la malinconica anemia delle casse sociali ha reso impossibile un ulteriore salto di qualità e il tecnico prende la strada della Milano rossonera. Alla corte del diavolo resterà sino all’estate del 1979. A quell’epoca ha 57 anni, chiede un contratto triennale, ma la società rossonera, appena guidata allo scudetto della stella, esita ad accontentarlo.
Nella trattativa irrompe Viola che ha appena rilevato la presidenza romanista, il suo primo atto è proprio una telefonata a Nils: «Se lei non torna a Roma rinuncio a prendere la società». Liedholm sa che non è vero, ma capisce che con Viola può aprire un ciclo. Così, clamorosamente, il tecnico neocampione d’Italia lascia la Madunnina e il visto per la Coppa Campioni per la “rometta”. Il carisma del tecnico è ormai leggendario, smorza sul nascere ogni polemica con le sue battute. Quando ad esempio qualcuno cerca il titolo ad effetto chiedendogli: «Di Bartolomei fuori: come mai?», lui risponde con un disarmante sorriso: «Ho lasciato fuori anche Rivera a volte». Prende così vita il ciclo più grande della storia romanista, tre Coppe Italia, uno storico scudetto e un’icona, quella della zona, che incanta il mondo. Nel 1983/84 la stagione più avvincente, secondo posto in campionato, finale di Coppa Campioni e Coppa Italia. Alla sfolgorante resa tecnica, corrispondono però altrettanti momenti ad alta tensione fra il tecnico e il presidente. Nel Derby del 26 febbraio, la Roma campione arriva al 45° sotto di un gol, Viola si affaccia negli spogliatoi e lo svedese lo mette risolutamente alla porta dicendogli chiaro e tondo che lì comanda lui. Meno di quaranta minuti dopo il Senatore cercherà di mettersi in contatto con Trapattoni per proporgli la guida tecnica della Roma. Viola, sbollita la rabbia, tornerà sui suoi passi e qualche mese più tardi arriverà addirittura a condurre il tecnico a bordo della sua macchina scortandolo in interminabili passeggiate attraverso Roma: («Ho conosciuto molti quartieri periferici in quelle giornate» ha confessato Nils … N.d.A.”) per convincerlo a rimanere alla guida della squadra. Sarà tutto inutile, dopo la maledetta finale di Coppa Campioni e dopo l’affermazione in Coppa Italia del 26 giugno 1984, il “Barone” lascia nuovamente la capitale per Milano.
Ci saranno ancora due ritorni, nell’estate del 1987 (per un biennio agrodolce fatto di un terzo posto ma anche di un esonero di un mese nella stagione 88/89) e nell’aprile del 1997, quando apre nuovamente l’ombrello del suo carisma per consentire a Sella di condurre in porto una stagione assai travagliata. Il suo romanzo giallorosso proseguirà ancora per tre anni, prima con il ruolo di Direttore tecnico, quindi come Consigliere della società. Infine il definitivo ritorno fra gli splendidi vigneti di Cuccaro, proprio alla vigilia della conquista del terzo scudetto della storia romanista. Al di là della sapienza calcistica, delle fondamentali intuizioni tecniche, della coerenza (disse che alla Juve non sarebbe mai andato perché assieme lui e la vecchia signora avrebbero ucciso il campionato e ha sempre mantenuto la parola) e della maestria nello scoprire e valorizzare i giovani, l’aspetto che maggiormente ho amato di Liedholm è la sua ironia, il suo gusto per il paradosso. Nel 1999 ad un intervistatore che chiedeva se l’allenatore è un artista rispose: «Vorrebbe e forse potrebbe, però i suoi strumenti teorici sono sempre da verificare, quelli pratici non sono omogenei (…) voglio raccontarle un aneddoto: giocavamo, intorno all’inizio degli anni 60 una delicata partita di campionato, Milan – Fiorentina (…) Suggerii al mio compagno Frignani di correre verso l’area viola al fischio d’inizio perché io mi sarei fatto passare la palla, avrei fatto finta di arretrare nella nostra metà campo ed invece avrei lanciato la palla a lui. Era, in fin dei conti un mio primo schema, il mio lancio, 35 metri fu perfetto, arrivò proprio nel punto dove era Frignani. Peccato che il libero della Fiorentina Mangini fu più veloce di lui e con una rovesciata liberò l’ area, inoltre senza volerlo colpì Frignani in bocca con il piede e gli ruppe i denti. In breve, fui pregato di non pensare più a schemi di nessun genere».