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IL ROMANISTA Senza limiti e confini

Pjanic

(T. Cagnucci) Stavolta è troppo: ci stanno i limiti. Persino il mare c’ha i confini e qualche astrofisico sostiene che pure l’universo ne abbia. D’altronde quasi mai puoi restituire quello che la Roma ti fa sentire, ma quello che è successo ieri è un po’ più difficile, un po’ di più. Non dà il senso niente. Non te l’aspettavi, non così, in 10, riuscendo a segnare in superiorità numerica, lì dove l’ultima volta avevano perso contro la Juve di Platini, non dopo il filotto, con quel tempo, con l’ora solare spostata probabilmente per cercare di fermare la Roma, con la solitudine di Biabiany che è più solitudine (e Udine) di quella dei numeri primi, senza Totti, Gervinho, poi Maicon, non mentre tutto attorno il mondo fischia rigori a Juve e Napoli tanto per farti capire quello che già sai.

Ricorri alla matematica quando mancano le parole, e vabbè ma la tabellina del 3, il 27 proprio ieri che era 27, il fatto d’aver scavallato il 26 (ma quello da mo…), il gol a 9 minuti dalla fine, all’81’ che 1+8 fa 9; tutto l’inno alla gioia che è l’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven non ti dà ancora il senso di quest’altra vittoria. Provi a farneticare, pensi al dolce, dolce Ludovico Van, al capoccione da teletubbies di Bradley, al suo “I have a dream” così simile allo slang de noantri di Nando Mericoni. Amenità e cazzate del genere, frasi senza senso purché smodate, scomposte, sincopate. Vai con la musica perché la matematica non basta, ma questa Roma non ci sta (nel senso che ci scoppia dentro) nemmeno nella danza di Morgan De Sanctis, in quella sua specie di haka ballata sotto la vetrata, quell’urlo tarantolato col salto carpiato nel vuoto che è un inno alla gioia veramente. E’ tutto troppo e troppo poco per restituirlo. Forse c’è un’immagine che dà di più, quando Daniele De Rossi si piega sulle ginocchia al fischio di Bergonzi, quasi a crollare, a rilasciare tutta l’acqua del mare (che dicono abbia confini) che a qualcuno ha ricordato il gesto di Bruno Conti al gol di Altobelli al Mundial spagnolo: ma vuoi mettere un semplice mondiale con una vittoria della Roma in una partita di campionato? Non c’è modo per spiegare.

E’ forse un rumore sordo, un tonfo dentro, come quello sentito nel momento in cui Bradley (poi entro) tocca il pallone. Quell’attimo di fantastica irripetibile scompostezza in cui hai pensato, prevaricato, abbracciato, immaginato, quello che hai sentito finalmente tuo, raggiunto, sognato, almeno in quel momento. Questa vittoria è quell’attimo che vale più di qualsiasi finto record fatto dalla Juve in passato: ineguagliabile in partite così, in giornate così, fatte apposta per… sentirsi della Roma.

Giornate in cui bisogna ricordare per forza Luigi Magni e Lou Reed (morti loro non le loro opere): uno ha girato “Nell’anno del Signore” e “State boni se potete”, l’altro ha cantato “A perfect day”, qualcosa che c’entra con oggi, con questa Roma. Almeno con quell’attimo. Questa Roma qua, questo giorno qua che però è soprattutto un modo per ricordare quel tifoso, Fabio, che se ne è andato via proprio prima della partita, che su Facebook aveva scritto postando la coreografia del Ti Amo, “tanti auguri unico grande amore della mia vita”. Fa’, un amore così grande da qualche parte continua, non finisce mica. Non è mica vero che c’ha i confini.

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